🇧🇦 La Bosnia a un passo dalla secessione?
I Balcani torneranno a infiammarsi?; la settimana in Italia e nel mondo
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🇧🇦 La Bosnia è a un passo dalla secessione
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🇧🇦 La Bosnia è a un passo dalla secessione
di Michele Ditto
«Da oggi, non c’è più la Bosnia-Erzegovina». Sono state queste le parole di Milorad Dodik, il presidente secessionista della Repubblica di Srpska, di fronte alla folla accorsa in suo sostegno a Banja Luka a seguito della notizia della sua condanna a un anno di galera e a sei anni di interdizione dall’attività politica.
La sentenza di primo grado emessa il 26 febbraio dal tribunale di Sarajevo non entrerà in vigore fino al verdetto finale. Il politico serbo può ancora fare ricorso ed evitare persino il carcere pagando una multa pari a 52 euro per ogni giorno di detenzione, dunque circa 19mila euro.
Nonostante ciò, a Banja Luka si parla di uno strappo deciso e, forse, definitivo con il governo federale. Da tempo infatti le due entità che compongono la Bosnia sono ai ferri corti, complici anni di retorica secessionista da parte di Dodik, che potrebbe finalmente aver trovato il giusto pretesto per fare seguire alle parole i fatti.
Per giunta, il politico serbo ha già incassato la solidarietà del Cremlino e del premier ungherese Viktor Orbán, mentre il presidente serbo Aleksandar Vučić si è recato d’urgenza a Banja Luka per incontrare il presidente incriminato, a dimostrazione del clima di tensione che si respira nel Paese balcanico.
Le spinte secessioniste dei serbi
Negli ultimi anni, il fragile equilibrio istituzionale della Bosnia è stato messo costantemente a dura prova. Dodik ha contribuito in tal senso fin dal suo primo mandato come presidente della Repubblica di Srpska, una vasta entità territoriale dotata di poteri autonomi in vari settori.
Istituita con gli accordi di Dayton del 1995, che ponevano fine alla guerra tra croati, bosgnacchi e serbi - le tre principali etnie della Bosnia - la repubblica in questione e i suoi abitanti hanno sempre coltivato un senso di rivalsa verso l’esito del conflitto, che aveva visto l’intervento risolutivo della Nato proprio a scapito delle aspirazioni serbe.
Questo sentimento si è tradotto in un’indole revisionista da parte dei politici di Banja Luka, convogliata in questi anni da Dodik nell’implementazione di varie misure dal sapore secessionista, come la decisione di varare a giugno del 2023 una proposta di legge sulla non applicazione delle decisioni della Corte costituzionale di Sarajevo.
Il motivo scatenante era stata la decisione della Corte di iniziare a deliberare a maggioranza semplice. Prima le deliberazioni dovevano tenere conto delle componenti etniche del Paese: era infatti richiesto il voto dei giudici provenienti da entrambe le entità di cui è composta la Bosnia ed Erzegovina.
Il passo più importante è stato però quello che è costato a Dodik la recente condanna, ovvero la decisione, presa da lui stesso, di non rispettare l’autorità e i provvedimenti dell’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, una carica ricoperta attualmente dal politico tedesco Christian Schmidt.
Si tratta di una figura istituita con gli accordi di Dayton e che ha il compito di supervisionare l’implementazione di questi ultimi, anche attraverso la cancellazione di leggi e la rimozione di funzionari considerati di ostacolo al mantenimento della pace nel Paese.
A luglio del 2023 a Schmidt fu negato di entrare nel territorio della Repubblica di Srpska, e addirittura Dodik minacciò – seppure poi ritrattando – di farlo arrestare.
Da parte di Banja Luka non sono mancate poi azioni perlopiù simboliche, come l’istituzione, il 9 gennaio, della “giornata della Repubblica di Srpska”, un giorno festivo ritenuto illegittimo dalla Corte costituzionale perché coinciderebbe con la data di inizio di alcune pulizie etniche durante la guerra.
Azioni come questa non sono comunque passate inosservate negli ultimi anni. A gennaio 2024, due F-16 statunitensi sorvolavano i cieli della Bosnia proprio con l’intento di ricordare a Dodik che gli accordi di Dayton erano ancora in vigore e che gli Stati Uniti erano pronti a spendersi per garantirne la piena applicazione.
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, tuttavia, Banja Luka potrebbe aver scommesso sul progressivo disimpegno americano dagli affari europei, dunque, in ultima istanza, sulla possibilità di secedere senza innescare l’intervento militare di Washington per ristabilire lo status quo.
Cosa rischia la Bosnia
In risposta alla condanna di Dodik, i deputati della maggioranza del parlamento di Banja Luka hanno applicato misure drastiche per ridurre ulteriormente l’ingerenza del governo centrale, come il vietare all’interno del territorio della Repubblica l’attività della polizia federale, della magistratura e dell’Oba, l’agenzia di intelligence.
È stata poi anche adottata una legge per istituire un registro speciale per le organizzazioni no profit, le Ong e i media indipendenti. Un provvedimento che ricorda da vicino la cosiddetta "legge sugli agenti stranieri", già applicata e ampiamente contestata in Georgia.
Schmidt ha già condannato l'azione dell'assemblea della repubblica serba, affermando che potrebbe minare la pace nel Paese. Il membro bosgnacco della presidenza tripartita della Bosnia, Denis Bećirović, ha invece affermato che terrà presto un incontro con i comandanti di Eufor e con i responsabili dell'ufficio Nato a Sarajevo.
Anche a Washington il Dipartimento di Stato ha ribadito il sostegno degli Stati Uniti agli accordi di Dayton, affermando di opporsi fermamente a qualsiasi azione che abbia come scopo quello di minare la sovranità e l'integrità territoriale della Bosnia. Resta da vedere fin dove saranno disposti a spingersi gli States in tal senso.
La sentenza del tribunale di Sarajevo rappresenterà forse il passo cruciale verso la secessione della regione a maggioranza serba della Bosnia.
Anche se lo strappo non dovesse ricomporsi, tuttavia, non significa che si assisterà al ritorno della guerra nei Balcani. Questo distacco potrebbe infatti realizzarsi anche in maniera pacifica.
Sicuramente, si tratterebbe però di un ulteriore danno all’immagine degli Stati Uniti come garanti di una parte di quell’assetto geopolitico che essi stessi hanno contribuito a formare nei decenni precedenti.
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