🇮🇷 La crisi dell'Iran: intervista a Mauro Conciatori
Parla l'ex ambasciatore italiano a Teheran; la settimana in Italia e nel mondo
Nell’uscita di oggi
🇮🇷 La crisi strategica dell'Iran, intervista a Mauro Conciatori, già Ambasciatore italiano a Teheran
🌍🔥 Cosa è successo nel mondo questa settimana
🇮🇷 La crisi strategica dell'Iran, intervista a Mauro Conciatori, già Ambasciatore italiano a Teheran
di Michele Ditto
Aliseo: L'Iran ha lanciato alcuni giorni fa le più grandi esercitazioni militari da decenni, in risposta a nuove minacce alla sua sicurezza. In effetti, con il forte ridimensionamento subito da Hezbollah e Hamas, la perdita della Siria e l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, la Repubblica Islamica si trova oggi ad affrontare una crisi di sicurezza senza precedenti.
Crede quindi che queste esercitazioni militari siano un atto di forza volto a mascherare la sua fragilità e insicurezza? Se sì, quanto è fragile oggi la posizione dell'Iran e qual è il rischio maggiore che potrebbe affrontare la Repubblica Islamica nel futuro prossimo?
Mauro Conciatori: Il responsabile dell’Agenzia Iraniana per l’Energia Nucleare, Mohammad Islami, ha chiarito il 15 gennaio che queste esercitazioni servono a testare le capacità di difesa da eventuali attacchi ai siti nucleari di Qom, Isfahan e Natanz.
Un’attività quindi dovuta, se non di routine, vista la tambureggiante narrazione di un possibile attacco israeliano, o addirittura israelo-americano, ai predetti siti.
Da settimane fonti vicine a Teheran diffondono la tesi che la Repubblica Islamica possiede sistemi antimissile sconosciuti, che avrebbero indotto Israele a ridimensionare gli obiettivi dell’attacco del 26 ottobre scorso, ma non emergono allo stato credibili conferme al riguardo.
Più rilevante, al limite, mi sembra la firma dell’accordo di partenariato con la Russia, lungamente negoziato e finalizzato il 17 gennaio, che prevede anche collaborazioni in campo militare.
Come lei correttamente osserva, la partita per gli equilibri regionali ha scandito negli ultimi mesi rovesci in serie per la Repubblica Islamica, con il brusco arretramento dei suoi più o meno riottosi proxies (salvo, finora, gli Houthi yemeniti, legati all’Iran più da convergenze tattiche che da rapporti di coordinamento).
In Libano l’attacco di Israele a Hezbollah ha portato a un ribaltamento degli equilibri politici, che chiude decenni di influenza siro-iraniana e riporta il Paese nell’orbita occidentale, e quindi israeliana.
Col rovesciamento di Bashar Assad, anche la Siria esce dalle aree di influenza di Teheran e di Mosca, e passa per buona parte in quella del battitore libero Erdoğan, pur in presenza di una perdurante frammentazione sul terreno.
È stata dunque spezzata la continuità di quell’arco territoriale controllato da attori locali alleati di Teheran, che premeva militarmente su Israele (e sulle forze americane nella regione) garantendo all’Iran deterrenza rispetto a sviluppi sgraditi.
Al quale arco l’Iran aveva assommato, a partire dal 2017-18, un rapporto preferenziale con Hamas, utile ad accentuare la pressione su Israele ma che, a giochi fatti, si è rivelato l’attore che, attaccando Israele il 7 ottobre ’23, ha avviato il crollo dell’intero edificio.
Inoltre Israele sostiene di aver compromesso, con il bombardamento del 26 ottobre scorso, anche il secondo pilastro su cui l’Iran basa la deterrenza, cioè l’ampio e modernissimo arsenale di droni e missili ipersonici a medio raggio deputato a scoraggiare aggressioni. Secondo l’esercito israeliano sono state significativamente danneggiate dotazioni e capacità produttive.
Non conosciamo con esattezza il livello qualitativo di tali danni, ma certo è che a quell’attacco Teheran non ha ancora risposto. Dunque la complessiva equazione di sicurezza della Repubblica Islamica è oggi modificata in profondità, e presenta pesanti incognite.
Aliseo: In questo contesto, crede che lo sviluppo della bomba nucleare possa rappresentare l'assicurazione sulla vita per l'Iran? C'è davvero la volontà di dotarsi dell'arma atomica o minacciarne lo sviluppo è solo uno strumento di pressione e negoziato con l'Occidente?
Mauro Conciatori: Un anno dopo il ritiro unilaterale americano del 2018 dall’Accordo sul nucleare (Jcpoa) anche l’Iran annunciò di non ritenersi più vincolato ad applicare l’integralità delle sue clausole.
Si dice che sia ormai giunto a una situazione di “latenza nucleare”, cioè che sia in possesso di tutte le conoscenze tecnologiche e della quasi totalità dei materiali fissili da mettere in un ordigno.
Una parte, finora maggioritaria, dell’establishment confida che questa latenza costituisca già di per sé una convincente forma di deterrenza.
Ma sono sempre più assertive le voci che ritengono ormai indispensabile perfezionare un’arma nucleare: per una deterrenza più incisiva, ma anche per utilizzarla in risposta a un massiccio attacco volto a dislocare la Repubblica Islamica, che essi temono ormai imminente.
È possibile che fette crescenti di opinione pubblica comincino a sposare questo approccio.
Aliseo: Si tratta però allo stesso tempo di un grosso rischio per l'Iran quello di dotarsi dell'arma atomica, che potrebbe scatenare un intervento diretto di Israele e degli Stati Uniti al fine di impedirlo. Come la vede?
Mauro Conciatori: Infatti il rischio delle deterrenze asimmetriche è quello di incentivare anziché scoraggiare l’attacco.
E il dibattito interno è serrato, incrocia forse anche il delicato snodo della successione all’ottantacinquenne Guida Suprema, e s’inquadra in una partita più ampia fra grossi centri di potere trasversali e fra loro concorrenziali, che vedono in maniera diversa la futura evoluzione della Repubblica Islamica in campo istituzionale, ideologico, sociale e anche internazionale.

Aliseo: Su queste dinamiche di sicurezza regionale incide evidentemente anche l’avvento della nuova Amministrazione americana, con Trump che promette massima pressione sull’Iran.
Mauro Conciatori: Certo. E vi introduce ulteriori incognite. Teheran ha pessimi ricordi del precedente quadriennio di Trump, e oggi non è affatto rassicurata dalle sue nomine ai posti apicali, per quanto le scelte politiche di fondo appaiano ancora impregiudicate.
Temo però che per Trump il nodo iraniano venga presto al pettine, specie dopo aver sparato a salve la prima cartuccia nel dialogo con Putin sull’Ucraina, con la fallimentare missione moscovita dell’emissario Kellogg.
Proprio il cessate-il-fuoco appena raggiunto a Gaza, con la prospettiva di un’ulteriore sequenza negoziale che può consolidare una lunga tregua, ha l’effetto indiretto di sgombrare il campo per le influenti componenti che in Israele e negli Stati Uniti premono per la guerra all’Iran nella speranza di provocare un regime change.
A Trump si prospettano allora, con una certa urgenza, tre (o quattro) opzioni, una peggiore dell’altra per la Repubblica Islamica: dare luce verde a un nuovo attacco israeliano su obiettivi militari; associare gli Stati Uniti a una massiccia azione militare per favorire la caduta del regime; varare sanzioni simili a quelle che hanno schiantato la Siria di Assad, in modo da costringere Teheran a negoziare un accordo draconiano o da propiziare sommovimenti antiregime.
Il Presidente americano è imprevedibile e tale ama apparire. È probabile che davvero voglia evitare nuove guerre, come spesso dice, per concentrarsi su dossier interni e per rafforzare gli Stati Uniti sul continente americano, come suggeriscono le sue sortite su Canada, Groenlandia, canale di Panama e necessità di ridenominare il Golfo del Messico.
Ma nella politica estera americana operano inesorabili meccanismi inerziali innescati nel deep state da potenti gruppi di pressione e loro addentellati, alcuni dei quali traggono vantaggi da conflitti o escalation militari.
Accelerare un negoziato deve dunque sembrare a varie componenti iraniane la possibile via d’uscita. Il Presidente riformista Pezeshkian ribadisce disponibilità a negoziare. Credo che gli iraniani “aperturisti” sappiano bene che, con Trump, un’eventuale intesa dovrà piacere anche a Israele.
D’altra parte, nel 2015 Netanyahu motivò la sua opposizione all’accordo Jcpoa con le mancate garanzie a Israele su proiezione regionale dell’Iran e missili: la prima è oggi ampiamente liquidata, e i secondi potrebbero essere stati ridimensionati dal predetto attacco israeliano.
Non è escluso che l’ala filoccidentale del regime (e forse non solo essa) pensi a un’intesa davvero strategica con Washington.
In questo quadro, la riattivazione del progetto di gasdotto che collegherebbe i colossali giacimenti qatarini di South Pars al Mediterraneo via Siria, resa teoricamente possibile dalla liquidazione di Assad, consentirebbe all’Iran di mettere sul piatto di un negoziato “business-oriented”, ricche aperture a favore di influenti ambienti americani, visto che un’altra metà circa del giacimento di South Pars si trova in acque territoriali iraniane.
Pure illusioni, probabilmente, ma forse utili in questa fase a discendere qualche gradino sulla scala delle tensioni.
Forse anche alcune componenti radicali iraniane vedono oggi il negoziato come il male minore, se non altro per guadagnare tempo: in un dibattito pubblico del 31 dicembre scorso, riportato dal New York Times, l’influente generale dei Pasdaran Behruz Esbati ha scandito che l’Iran al momento non è in grado di colpire di nuovo efficacemente Israele con missili e droni, né ha interesse a provocare gli Stati Uniti con un tecnicamente problematico attacco a qualche sua base.
Ma all’interno della galassia radicale ci sono anche sensibilità differenti: una parte di essa ritiene che per togliere dal tavolo l’opzione di un nuovo strike israeliano sia indispensabile ristabilire la deterrenza, dimostrando in qualche modo concreto a Israele la perdurante capacità iraniana di nuocere.
In Iran le divisioni sulla politica estera restano abbastanza trasversali alle tre “conglomerate” che si contendono e si spartiscono il potere (religiosi, militari e imprenditori) e in parte anche alla distinzione fra riformisti, pragmatici, conservatori e radicali.
La partita interna iraniana e quella complessiva regionale sono oggi aperte a tutti gli sviluppi, lungo un sentiero scivoloso con vista su un piuttosto sinistro abisso.
Aliseo: A proposito dei rapporti tra l'Iran e la Turchia, Ankara ha guadagnato quote d'influenza in Medio Oriente dopo la caduta del regime di Assad proprio a scapito dell'Iran, che adesso sembra abbia spedito circa 1.500 droni suicidi ai curdi siriani. Dobbiamo aspettarci un innalzamento dello scontro tra l'Iran e la Turchia? E Israele che ruolo avrà all'interno di questa competizione?
Mauro Conciatori: In Siria l’Iran ha subito per mesi una dura campagna israeliana di bombardamenti che ha martellato i suoi assetti e quelli di Hezbollah, eliminando anche autorevoli vertici militari, con l’assenso di fatto del regime di Assad.
Non sono sicuro che l’ultimo Assad rappresentasse per l’Iran ancora un asset piuttosto che una liability, e che la sua caduta sia stata considerata una grave perdita, al contrario dei colpi subiti nei mesi precedenti sul terreno.
Fra tutti i possibili sviluppi, a quel punto, la tutela turca sulla maggior parte della Siria era per Teheran la soluzione preferibile, rispetto a una presa di controllo di Damasco da parte di forze direttamente legate a Stati Uniti, Israele o Arabia Saudita.
E non a caso non vi ha opposto alcuna resistenza. L’Iran tenterà ora di mantenere qualche capacità di proiezione sul terreno in una situazione di grande fluidità e perdurante frammentazione, ma dubito abbia interesse in questa fase a indebolire la posizione turca rafforzando proxies degli Stati Uniti e quindi, indirettamente, di Israele.
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