🪖 Perchè l'Occidente non sa più vincere le guerre?
Guerra e politica: un ponte da ricostruire; leggi gratis tutto l'editoriale de Il ritorno delle guerre, il numero invernale della rivista di Aliseo
L’editoriale da “Il ritorno delle guerre”, solo per voi
Dall’Ucraina a Gaza, passando per Taiwan, Il ritorno delle guerre è il numero di Aliseo dedicato ai conflitti contemporanei. Nelle nostre analisi esaminiamo il futuro delle operazioni urbane e delle guerre non convenzionali, la fragilità della globalizzazione e l’effetto delle sanzioni.
Oggi vogliamo fare un regalo a voi iscritti a Lumina, di seguito trovate “A un battito dal cuore”, l’editoriale del direttore Francesco Dalmazio Casini che apre la rivista dedicata ai conflitti contemporanei.
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A un battito dal cuore
Francesco Dalmazio Casini
Indice
La guerra senza politica dell’Occidente
Sulla guerra a alta intensità
Sulla guerra asimmetrica
Guerra, politica, Occidente: un ponte da ricostruire
Ore 5.30 del mattino del 20 marzo 2003. Complesso delle fattorie di Dora, periferia meridionale di Baghdad. La Seconda guerra del Golfo è cominciata da pochi minuti. Quattro bombe guidate da due tonnellate e quaranta missili da crociera si abbattono su quello che l’intelligence americana crede essere il nascondiglio di Saddam Hussein.
L’operazione è realizzata magistralmente: nessuno dei missili viene intercettato, i bombardieri stealth F-117 attraversano con facilità le difese aeree irachene, il nemico si accorge dell’attacco solo quando gli esplosivi inceneriscono il complesso. Il problema? Le fattorie di Dora erano obiettivi privi di valore che nulla avevano a che fare con il leader del regime di Baghdad.
Per David Kilcullen – teorico militare e ufficiale australiano – con il raid gli Stati Uniti raggiunsero «il punto culminante della supremazia militare nel dopo Guerra fredda». A partire da quell’episodio – in cui possiamo scorgere estrema perizia tattica mista a inconsistenza strategica – comincia un processo di riflusso che oggi vediamo arrivato a maturazione.
Sulla soglia dello scontro con le potenze revisioniste, Washington insiste in un paradosso geopolitico apparentemente inestricabile. La grammatica strategica la vorrebbe votata interamente allo scontro con la Repubblica Popolare Cinese nelle acque del Pacifico; la realtà del campo le vede alle prese impantanata in una miriade di teatri di second’ordine, che ne distolgono le forze dalla contesa decisiva.
La superpotenza sconta il prezzo di un approccio peculiare alle vicende del pianeta, colpevole di guardare alla tattica prima che alla strategia, all’etica prima che all’interesse. Propositi ideali se si vestono i panni di egemone incontrastato, meno quando nemici sempre più agguerriti si accalcano alle frontiere dell’impero.
Peggio. Lo strapotere militare occidentale oggi appare sempre più vacillante alla luce di un’evoluzione imprevista della tecnica bellica. I decisori dell’Ovest scoprono con orrore che le guerre sono ancora affamate di centinaia di migliaia di uomini e di decine di milioni di proiettili.
In altre parole, sembra che la massa umana e industriale resti l’arbitro definitivo dei conflitti: una pietra tombale su quella Revolution in military affairs che vedeva al centro delle operazioni militari rapidità d’azione e tecnologia sofisticata, in cui l’Occidente si è cullato a partire dalla Prima guerra del Golfo.
Lo stesso paradigma portato all’estremo nel buco dell’acqua delle fattorie di Dora. La radice del problema si trova fuori dalla sfera prettamente militare. Se oggi ci interroghiamo se essere o meno alla vigilia di una nuova battaglia di Tsushima – «a un battito del cuore da una guerra mondiale che potrebbe perdere», nelle parole del diplomatico Aaron Wess Mitchel –, ciò avviene a causa di un divorzio inedito verificatosi nella storia delle collettività: quello tra guerra e politica.
La guerra senza politica dell’Occidente
È esistito a lungo in Occidente ampio consenso in merito al fatto che lo jus ad bellum – la facoltà legittima di muovere guerra – fosse una delle prerogative fondamentali dello Stato. Da qui la fortunata frase di Carl von Clausewitz per cui il conflitto altro non sarebbe che «mera prosecuzione della politica con altri mezzi».
Una distinzione rifiutata in toto da Carl Schmitt, che nella distinzione politica alla base della vita statuale – quella tra amico e nemico – scorge a priori «l’eventualità, in termini reali, della lotta». Per il giurista di Plettenberg la guerra è grado estremo e non distinto della politica. Tale percezione si sostanziava nella visione canonica delle organizzazioni politiche che avevano popolato la storia occidentale da Roma alla modernità, segnate dalla preminenza assoluta dell’elemento militare nella vita pubblica.
Questa centralità entrerà in crisi con l’avvento degli idealismi novecenteschi. Con questi, si afferma una concezione della guerra come atto criminale, evidente nella condanna – morale e politica – imposta alla Germania al termine del Primo conflitto mondiale. Quanto era in nuce presente nel wilsonismo, giungerà a piena maturazione con la fine della Guerra fredda e l’avvento del momento unipolare.
In quegli anni Novanta, che saranno istante dorato dell’interventismo umanitario, si consumava definitivamente il divorzio tra guerra e politica. Eliminando il concetto del conflitto quale strumento della politica, le operazioni militari legittime erano solo quelle che rispondevano ai compiti di “polizia globale”.
Reso innecessario dall’avvento del villaggio globale e poco conveniente dalla crescente interdipendenza finanziaria, il polemos si preparava a dire addio alla vicenda umana. Un mutamento prontamente recepito dal lessico, che a parole come “guerra”, “conflitto”, “invasione” andava sostituendo il glossario dell’interventismo umanitario.
Vestito di nuove parole, il concetto di “guerra giusta” – bellum iustum – di matrice religiosa compiva il suo ritorno dopo tre secoli di esilio. L’uso della forza militare legittima diviene quindi una sanzione imposta a chi compie un torto ai danni dell’umanità. Torto a cui – alla stessa maniera delle forze di polizia – i gendarmi rispondono con operazioni militari mirate a ristabilire un ordine offeso, in maniera indistinguibile dal diritto interno.
Due sono le conseguenze per cui oggi l’Occidente paga dazio. La prima è costituita dall’assoluta impossibilità di trattare con chi commette un crimine. Si pensi all’ipotesi di un poliziotto che cerca di pervenire a un’intesa diplomatica con un fuorilegge. Sarebbe quantomeno imbarazzante, per Washington, aprire alle trattative con un Vladimir Putin che l’attuale amministrazione ha definito esplicitamente come «un dittatore sanguinario».
Se comunque, come pare, gli Stati Uniti tenteranno la soluzione diplomatica alla guerra in Ucraina, questo avverrà ovviamente a scapito della propria credibilità. Da qui l’estrema difficoltà nel pervenire a un qualsiasi tipo di intesa quando dall’altra parte del tavolo siedono attori alieni alla sensibilità occidentale, anche quando tale accordo dovesse rispondere a un interesse geopolitico concreto.
C’è un’altra conseguenza, squisitamente interna. Se la guerra non è più strumento principe dello Stato, ne consegue che l’apparato militare non può più assolvere un ruolo centrale nella narrazione del Paese.
Da pietra fondante della statualità, il mestiere delle armi veniva compresso nei limiti di una professione esotica e specializzata, appannaggio degli specialisti: sorgeva la necessità di una tecnicizzazione radicale delle guerre, al fine di ridurre il più possibile l’impatto del fattore umano e sul fattore umano. Ne nacque quella che gli strateghi cinesi Liang Qiao e Xiangsui Wang chiamarono sprezzantemente American-style extravagant warfare.
Lo scopo era colmare con la tecnologia il gap in termini di effettivi impiegati, e ridurre il più possibile le perdite – il cui costo appare sempre più difficile da giustificare agli occhi dell’opinione pubblica disaffezionata alle questioni militari. Un approccio che – scrive ancora Kilcullen – «enfatizza il dominio del campo di battaglia, ottenuto attraverso l’uso di tecnologie avanzate di precisione» ed è caratterizzato dall’«ossessione di minimizzare le perdite».
A svolgere un ruolo fondamentale sono le operazioni joint, che integrano le diverse componenti delle forze armate e l’utilizzo massiccio di violenti (e per quanto possibile precisi) attacchi aeronavali, con le operazioni sul campo, delegate nella maggior parte dei casi a gruppi di operativi specializzati che agiscono per portare a termine missioni specifiche. Le vittorie spettacolari conseguite dalla coalizione occidentale nella Guerra del Golfo e nella prima fase delle operazioni in Afghanistan corroborarono la convinzione che lo strapotere tecnologico basti da solo a raggiungere un risultato politico.
L’introduzione dei primi droni armati sembrò solo il coronamento scontato della nuova era. Come scrive Seth J. Frantzman nel suo Drone Wars, questi avveniristici sistemi erano «un risultato dell’egemonia globale americana e degli enormi investimenti in un’arma cucita sulle necessità della war on terror».
La rivoluzione dell’unmanned consentì agli Stati Uniti di colpire terroristi in più di 80 Paesi del mondo e di «ucciderli nel modo più facile possibile». Gli sviluppi in questo senso avrebbero portato a ridurre sempre di più l’esposizione del personale. I conflitti – si credeva – si preparavano a fare il passo definitivo verso l’abbandono dell’umano.
È difficile individuare il momento in cui tale percezione si infranse contro la realtà. Per alcuni teorici il “merito” fu dei nemici dell’Occidente, capaci di trascinare il conflitto fuori dagli angusti limiti del campo di battaglia. Altri sottolineavano l’erosione del differenziale tecnologico come fattore dirimente. Per altri ancora – tra questi Kilcullen – il problema era al principio. Abituato a vincere attraverso mera tattica, l’Occidente si scopriva acerbo nel masticare strategia.
Nello spazio di un decennio i nodi venivano al pettine: dal caos delle primavere arabe all’annessione russa della Crimea, passando per la recrudescenza delle insurrezioni in Iraq e Afghanistan. La guerra tecnicizzata, orfana della politica, non era più in grado di vedere oltre il campo di battaglia e si rivelava platealmente incapace di «trasformare il successo in uno scenario politicamente favorevole duraturo».
Sulla guerra ad alta intensità
Le innovazioni tattiche che hanno preso forma sul campo dell’Ucraina restituiscono un assunto strategico che oggi suona rivoluzionario: la guerra è un fatto umano e il suo impatto sulle collettività belligeranti è impossibile da limitare attraverso l’evoluzione tecnologica. Anzi, è proprio questa a richiedere risorse umane e industriali sempre maggiori.
A fronteggiarsi sono eserciti che sfiorano il milione di effettivi, impegnati su un fronte esteso di più di un migliaio di chilometri e costretti a sostenere perdite che nelle fasi più accese toccano le mille unità ogni 24 ore. Da qui la necessità, tanto ucraina quanto russa, di rimettere al centro del vivere collettivo l’aspetto bellico. Reclutare migliaia di persone ogni giorno passa per il coinvolgimento di tutta la compagine sociale nell’impresa militare.
Il colonnello americano David Johnson suggerisce che la rivoluzione in atto sia della stessa portata di quella che investì gli eserciti europei verso la fine del XVIII secolo. Allora, il modello della kabinettskriege – la guerra condotta da eserciti professionisti di dimensioni contenute – cedette il passo al conflitto totale tra entità statuali.
L’intuizione francese della levée en masse permetteva di sostituire intere armate nello spazio di pochi anni attraverso la coscrizione di enormi scaglioni di popolazione. Parigi dettò i tempi, ma tutti furono costretti ad adattarsi. In breve, agli eserciti “federiciani” si sostituirono le nazioni in armi che sarebbero state protagoniste delle guerre mondiali.
Johnson sottolinea come la superiorità militare russa – al netto di molte scelte sbagliate – non sia stata sufficiente a ridurre la richiesta di uomini al fronte e i tempi del conflitto. Il Colonnello invita però gli Stati Uniti ad essere molto cauti nell’attribuire tale enorme necessità di materiale umano alla scarsa preparazione della macchina bellica di Mosca.
La sua ipotesi è che il tipo di conflitti tra grandi potenze che (forse) ci aspettano richiedano semplicemente una disponibilità di risorse e uomini di scala diversa rispetto alle «short, sharp wars» a cui si erano abituati al Pentagono. Una lezione che la «miscela tossica di hybris e negazione» che attanaglia gli apparati americani potrebbe rendere particolarmente difficile da digerire.
Si prenda, a titolo di esempio, l’uso dell’artiglieria osservato in Ucraina. Per stessa ammissione militari ucraini, il gapcon Mosca in questo campo è sempre più difficile da colmare e in larga parte è da questo che dipende l’attuale affanno delle difese. Il fuoco delle forze di Kiev si è ridotto circa dell’80% tra i mesi di giugno 2023 – inizio della controffensiva di primavera – e la fine dello scorso anno.
Il motivo è la crescente difficoltà da parte degli alleati di produrre le munizioni necessarie. Oggi Mosca può permettersi di sparare quasi cinque volte di più rispetto agli avversari, e possiamo ipotizzare che tale volume di fuoco basti (e avanzi) a colmare la differenza qualitativa con il munizionamento occidentale. Dietro questo dato, c’è un paradosso. L’industria russa – assai meno avanzata di quella occidentale – si è adattata più rapidamente all’enorme fame di proiettili.
Quella dei Paesi Nato – imperniata su avanzatissimi stabilimenti hig tech – si è mossa più lentamente e non è un caso. Il complesso militare industriale americano ed europeo si è strutturato per un tipo di conflitti completamente diverso. Il risultato è che l’Occidente spera di arrivare a produrre entro la fine dell’anno lo stesso numero di proiettili prodotti oggi dalla Russia.
Obiettivo apparentemente modesto, dal momento che tale decisione si basa su una mole economica circa 13 volte superiore e su una popolazione otto volte più numerosa. Sul fronte della produzione di veicoli corazzati e missili guidati, la lezione è analoga: il vantaggio russo che sta prendendo forma nell’est ucraino è legato alla bruta quantità.
È ampiamente sdoganato che il conflitto in Ucraina abbia incoronato i droni come un assetto irrinunciabile della guerra contemporanea. Un assunto innegabile, con una postilla da aggiungere. Come nota Stacey Pettyjohn, durante il conflitto i droni da attacco e ricognizione di media taglia non hanno svolto un ruolo particolarmente incisivo. Questi sistemi – volto della war on terror statunitense e, secondo molti, delle guerre del futuro – sono infatti fragili e costosi, inadatti per un campo di battaglia dove i sistemi antiaerei abbondano.
Gli stessi droni Bayraktar, protagonisti di un ingiustificato mito pop, hanno smesso di far parlare di sé dopo i primi mesi di ostilità. I successi iniziali ucraini possono essere spiegati solo alla luce della disordinata avanzata russa. A giocare un ruolo inaspettato sono stati i droni da ricognizione di piccole dimensioni – spesso di origine commerciale – e le ormai famigerate loithering munitions, o droni kamikaze.
La possibilità di utilizzarli in grande quantità – e dunque perderli – è ancora una volta determinante. Questi sistemi costano molto poco e sono capaci di infliggere danni importanti anche a bersagli molto più costosi. Un drone suicida della serie Geran 2 monta una testata di oltre 40 kg, che lo rende in grado di attaccare qualsiasi bersaglio, con un costo per singola unità che oscilla tra 20mila e 50mila dollari.
Una frazione rispetto ai costosi missili antiaerei che si devono mettere in campo per sgominarli. Nel corso della guerra, diverse loithering munitions hanno fatto la loro comparsa e hanno passato la prova del campo, su entrambi i fronti. Persino versioni più rudimentali – semplici granate anticarro legate alla scocca di piccoli velivoli commerciali – hanno ottenuto buoni risultati.
A pilotare questi droni sono, nella maggior parte dei casi, soldati che si trovano effettivamente sul campo, a poche decine di chilometri dalla linea del fronte. Niente a che vedere con l’immagine stereotipata del pilota di droni hollywoodiano, che siede in un tranquillo container del Nevada, pacchetto di patatine alla mano, a riparo dalle durezze del campo di battaglia.
L’assunto strategico è invertito di significato. A lungo abbiamo immaginato i droni come chiave di volta per eliminare l’elemento umano e mettere al riparo risorse preziose. Dall’Ucraina arriva la conferma del contrario: secondo quanto riportato dal The Economist, ad oggi circa metà degli effettivi che compongono i gruppi d’assalto ucraini è deputato a pilotare i droni. L’introduzione dell’elemento unmanned – per paradosso – non determina la riduzione del personale necessario, la aumenta.
Durante il conflitto è stato osservato un altro utilizzo particolarmente interessante dei veicoli senza pilota: quello tra le onde. I droni marittimi ucraini Magura V5, utilizzati in sciami, hanno imposto un costo esorbitante alla flotta russa nel Mar Nero. Queste piccole imbarcazioni stipate di esplosivo sono state responsabili di alcune perdite eccellenti della Marina russa.
L’evoluzione tattica è incredibile, ma rientra nell’ambito di una tendenza ormai consolidata. Gli assetti più grandi e costosi si rivelano estremamente vulnerabili di fronte all’aumentata letalità dei sistemi più leggeri. Dai missili antinave ai sistemi a spalla – come il Javelin – arrivando agli stessi droni suicidi, risulta sempre più difficile elaborare contromisure per mettere al riparo corazzati, strutture sensibili e navi da guerra. Nella spirale evolutiva di misure e contromisure, oggi l’attacco si mostra una generazione avanti rispetto alla difesa, complicando notevolmente la protezione delle forze.
Esporsi troppo, in un campo denso di sistemi tanto letali, è una condanna quasi certa. Kiev e Mosca hanno pagato caro, in momenti differenti, la fiducia nella possibilità di porre fine alle ostilità attraverso una rapida azione decisiva. Il fallito attacco aviotrasportato russo verso gli aeroporti di Hostomel e Vasylkiv, e il fiasco della controffensiva ucraina di primavera hanno la stessa radice
La centralità che secoli di storia militare occidentale attribuiscono alle rapide guerre di manovra – e a operazioni ancora più ardite, come la decapitazione del vertice politico – è un’arma a doppio taglio. Opere di difesa preparate come la “Linea Surovikin”, le cui tecniche di costruzione sono sostanzialmente immutate rispetto a un secolo fa, si sono rivelate molto difficili da superare – specie attraverso rapidi assalti frontali – costringendo a rivedere la pianificazione strategica.
Se oggi Mosca torna all’offensiva è perché ha abdicato in toto all’ipotesi di vincere attraverso un’azione decisiva. Lo scopo ora sembra quello di trascinare un nemico più debole a livello industriale in una guerra d’attrito che prima o poi – sperano al Cremlino – ne esaurirà le risorse. Sono interessanti, in questo senso, le considerazioni dell’ufficiale statunitense Jeffrey Springman, che circa vent’anni fa si interrogava sulla possibilità che uno Stato potesse scegliere la guerra d’attrito come soluzione ottimale per un conflitto.
Per costui, «uno dei belligeranti che percepisca l’impossibilità di vincere una battaglia decisiva – o la cui unica speranza è spezzare la volontà del nemico – dovrebbe scegliere una guerra di logoramento», a patto che questa disponga di «una popolazione volenterosa e di un ampio spazio sicuro per ricostituirsi», oltre che di una base industriale sufficiente.
Così facendo, si tenta di esaurire le capacità del nemico, ma soprattutto lo si colpisce nello spirito, costringendolo a fronteggiare «una guerra che sembra non finire mai». Per farlo – spiega ancora Springman – bisogna fare i conti con una deformazione teorica, e cioè che la guerra di manovra sia di ordine superiore rispetto a quella di logoramento; dunque che un generale capace di vincere per mezzo della prima sia migliore di quello che ricorre invece alla seconda.
Sulla guerra asimmetrica
«Ci sono due modi per combattere gli Stati Uniti: in maniera stupida o in maniera asimmetrica». Sono passati circa dieci anni da questa considerazione del generale statunitense Herbert Raymond McMaster. Il verdetto che possiamo trarre oggi è abbastanza chiaro: i nemici dell’America non sono stupidi. Gruppi armati come Hezbollah, Hamas e Ansar Allah – e con loro, quanti ne adottano le pratiche – sono oggi capaci di mettere con le spalle al muro avversari ben più grandi.
Se oggi Israele esita a invadere il Libano per sgominare il “Partito di Dio” è perché è ben consapevole che il volto del conflitto sarebbe diverso rispetto a quello del 2006. Accanto agli esplosivi improvvisati, le Idf sarebbero accolte da droni suicidi e missili anticarro guidati – nelle mani di soldati che nulla hanno da invidiare alle forze regolari, come quelli del reggimento Radwan.
Con diversi gradi di intensità, assetti sempre più letali entrano nelle disponibilità di queste forze irregolari. Per costruire un drone first person view equipaggiato con una granata anticarro bastano poche centinaia di dollari. Lo stesso – non senza una buona dose di fortuna – può mettere fuori combattimento un carro armato da 10 milioni di dollari.
Le conseguenze di tale evoluzione, da sole, possono essere traumatiche per chi, per anni, ha pensato di fronteggiare semplici turisti della guerra, armati e addestrati alla buona: il risultato dell’”alluvione al Aqsa” dello scorso sette ottobre parla da sé.
Di tali nuove capacità hanno avuto un assaggio anche gli americani, quando un drone delle milizie irachene filoiraniane ha ucciso tre soldati statunitensi presso la base nota come “Tower 22”, al confine tra Siria e Giordania. Per trovare un altro americano ucciso in un attacco aereo bisogna scavare fino alla Guerra di Corea. I presupposti di ieri, insomma, stanno venendo meno.
Secondo Kilcullen, l’aumento del grado di minaccia da parte degli attori non statuali – con particolare attenzione ai gruppi islamisti dell’area mediorientale – risponde a una sorta di «darwinismo combattivo». Parlando dei talebani pachistani (Ttp), l’ufficiale spiega come «attraverso una pressione selettiva applicata ai loro leader gli attacchi dei droni americani abbiano aiutato a trasformare una serie di milizie tribali senza scopo in un gruppo terroristico unificato e con legami transnazionali».
Il discorso alla base è semplice. L’aumentare della pressione da parte dei “predatori” (le azioni volte a neutralizzare i miliziani) innesca un circolo adattivo che in una prima fase porta al collasso della popolazione di “prede” (i combattenti irregolari); quando le prede diminuiscono, i predatori diminuiscono la pressione; poco dopo le prede tornano ad aumentare e superano i livelli precedenti. Questa volta, a capo dei gruppi ci sono, però, i veterani che sono sopravvissuti al processo di selezione artificiale, i quali, attraverso la propria esperienza, costruiscono gruppi più capaci e combattivi.
L’evoluzione più preoccupante per le potenze convenzionali è però quella che riguarda la sfera politico-strategica. Come se avessero fiutato la disaffezione occidentale nei confronti della strategia, questi gruppi hanno mostrato una particolare abilità nel mettere il nemico all’angolo, costringendolo in una situazione in cui non esistono mosse vantaggiose. L’avversario viene così danneggiato, non solo attraverso l’azione attiva, ma anche attraverso il controllo della sua prevedibile reazione.
Il termine più adeguato, prestato dagli scacchi, è zugzwang – letteralmente “obbligato a muovere”. La reazione israeliana all’attacco di Hamas – brillante nella tattica, ma povera di strategia – ne è un esempio concreto. Quattro mesi dopo l’inizio delle operazioni a Gaza, Tel Aviv ha gravemente danneggiato la propria immagine internazionale. Le sue forze sono schierate in un territorio ostile, su cui non esercitano un controllo pervasivo – per esiguità delle forze impiegate – e che non possono occupare stabilmente, a causa dell’esiguità demografica del Paese. Di una visione per il “dopo”, nemmeno l’ombra.
Questi movimenti pongono le forze occidentali di fronte a un dilemma valido per gli statunitensi, le cui guarnigioni sono schierate praticamente ovunque nel mondo, ma anche per gli stessi europei. Sia che si tratti dell’oggi – si pensi alle difficoltà incontrate da Parigi nella sua piccola guerra al terrore nel Sahel – sia che si consideri la prospettiva di un maggiore coinvolgimento negli affari globali.
Il punto fondamentale è che la dottrina non ha ancora prodotto una metodologia efficace per vincere con una certa sicurezza un conflitto contro forze irregolari. Con una parziale eccezione: l’approccio noto come counterinsurgency, nella declinazione del generale statunitense David Petraeus sembra essersi dimostrato efficace per la stabilizzazione dell’Iraq tra 2007 e 2009. Oltre all’importanza di elementi non militari, come la diplomazia e la costruzione di un supporto presso la popolazione locale, questa dottrina presenta un problema fondamentale.
Il concetto cruciale è, infatti, quello della “densità di forza” – vale a dire il rapporto tra i soldati impiegati e la popolazione del territorio da stabilizzare. I teorici hanno proposto numeri anche molto diversi, ma la maggior parte ipotizza una quantità di uomini compreso tra 10 e 30 per ogni mille abitanti. Posto che tale approccio possa dimostrarsi vincente anche fuori dall’Iraq, esso richiede uno schieramento di forze enorme e per un lungo periodo di tempo.
Porre fine alla crisi nel Mar Rosso attraverso la distruzione del movimento degli Houthi richiederebbe, in linea puramente teorica, una forza di circa 200mila uomini. Ne consegue che le attuali contromosse introdotte da americani e europei, altro non siano che misure estemporanee, impossibilitate a raggiungere uno scenario politicamente favorevole.
Proprio la necessità di impiegare risorse immense per far fronte a una simile crisi apre a un interessante considerazione su quali siano quelle a disposizione degli irregolari. Li immaginiamo istintivamente poveri, in quanto sprovvisti dei sistemi d’arma più sofisticati. Eppure, questi si presentano spesso più ricchi nelle due risorse più importanti e incisive, le stesse di cui spesso difettano le avanzate forze armate occidentali: il tempo e la massa.
Inoltre, gli attori non statuali di successo sono profondamente radicati nel tessuto sociale del Paese. Ne sono l’espressione. La peculiarità del combattente irregolare – spiega Carl Schmitt – è quella di rappresentare ancora «un pezzo di vero suolo».
Tale radicamento nella comunità d’appartenenza implica che fino a che il patto tra insorti e popolazione regge, i primi hanno accesso a un bacino di reclutamento virtualmente infinito. Si può distruggere una generazione di combattenti, ma è molto più difficile evitare che quella successiva scelga di non imbracciare le armi per vendicare la precedente.
Negli irregolari si realizza la fusione di concetto politico e mestiere delle armi divenuta estranea all’Occidente. Per questo motivo la loro azione si declina attraverso i tempi della strategia e risulta particolarmente ostica da contrastare. Difficoltà rese alla perfezione nel famoso proverbio afghano, riferito a degli ipotetici ascoltatori occidentali, che ammonisce: «voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo».
Guerra, politica, Occidente: un ponte da ricostruire
Il senso della presente analisi – e del volume tutto – è sottolineare come l’evoluzione militare e politica del pianeta si stia incamminando lungo una spirale specularmente contraria rispetto a quanto preventivato dagli occidentali. In termini di distribuzione del potere, il margine del blocco dell’ovest si sta deteriorando.
La nuova condizione impone con urgenza l’adozione di una “dietetica della potenza”, e cioè commisurare – come realismo prescrive – le proprie risorse e le proprie aspirazioni alla luce di uno scenario in cui non sussiste più un differenziale militare incolmabile tra noi e l’altro.
Nel prossimo futuro minacce asimmetriche sempre più insidiose si salderanno a minacce simmetriche sempre più sviluppate. Una tendenza che si svilupperà su due livelli: la crescita nelle possibilità dei singoli attori – convenzionali e non – e l’adozione di strategie asimmetriche da parte di Stati come Russia, Cina e Iran.
Questo determinerà l’impossibilità di adottare una singola dottrina e costringerà all’acquisizione di capacità multiple. Dalla sfera informativa a quella della rete di traffici globali, bisognerà pensare la competizione come estesa a tutti i domini: il potere militare deve tornare tassello di un arsenale di soluzioni più ampio – un arsenale politico.
Il paradosso più evidente del divorzio tra guerra e politica è che tale evoluzione culturale non si è tradotta riduzione del numero delle crisi militari. La fede che la mera superiorità tattica potesse bastare a costruire uno scenario politico favorevole ha, al contrario, portato i Paesi occidentali alla moltiplicazione degli impegni militari.
Un approccio ipermuscolare che proprio l’assenza di una visione strategica ha minato alla base. Un discorso evidente tanto nelle neverending wars che Washington ha condotto per tutto il Medio Oriente, quanto nelle sfortunate operazioni francesi nel Sahel. Come da manuale, gli incredibili successi tattici non sono serviti a “vincere la pace”. Si è piuttosto trattato di operazioni politicamente insostenibili – perché prive di visione di medio termine – che hanno portato a reazioni di violento rigetto. Come insegna il caso libico, le conseguenze di un uso tanto disinvolto della forza sono state spesso tragiche per i suoi stessi promotori.
L’imperativo è ricostruire il ponte spezzato tra guerra e politica a tutti i livelli. L’evoluzione sul piano tecnico dei conflitti imporrà politiche industriali e di riforma delle forze armate molto profonde. Se è vero che il conflitto in Ucraina può fare scuola per i conflitti di terra tra potenze convenzionali, non è detto che le sue lezioni non risultino valide anche per scenari diversi.
Secondo il Center for Strategic and International Studies, ad esempio, gli Stati Uniti potrebbero esaurire le scorte di missili in poco più di una settimana di conflitto con la Cina. Qualsiasi tipo di conflitto prolungato, irregolare o convenzionale, sarebbe invece quasi impossibile da gestire per una qualsiasi nazione europea. Ricostituire capacità militari credibili (nel caso europeo) e mantenere il primato (nel caso americano) significa deviare una grande quantità di risorse economiche e umane nelle politiche legate alla difesa.
Se la narrativa dominante dovesse rimanere quella che descrive le guerre come prerogative di pochi sparuti malvagi del mondo, le società occidentali si mostreranno indisponibili a pagare tale prezzo. Proprio perché le risorse a disposizione si sono rivelate finite da ogni punto di vista, è necessario comprendere che l’uso della forza militare dovrà essere limitato alle sole questioni capitali, evitando di disperdere le forze laddove non siano in gioco interessi esistenziali e ridurre ad assurdo incidente di percorso quel periodo che ha visto i Paesi occidentali impegnare i propri militari in teatri di second’ordine ai quattro angoli del globo.
Per non ricadere in queste “distrazioni secondarie” (spesso e volentieri tragedie umanitarie), le operazioni militari devono inoltre tornare nell’alveo dello strumentario della politica. Riconoscere nell’avversario politico un criminale al di fuori della civiltà è un lusso che ci si può permettere solo quando questo non ha strumenti per competere militarmente, poiché il rischio è quello di coagulare i “fuorilegge” in un’asse granitico.
L’insegnamento da recuperare il più rapidamente possibile viene da Westfalia, non da Ginevra. La comprensione dell’altro e delle sue necessità strategiche deve quindi tornare al centro delle preoccupazioni dei decisori occidentali. Evoluzione dolorosa per chi si crede custode del patrimonio valoriale del pianeta, eppure necessaria di fronte al deteriorarsi della sua egemonia. In un mondo senza egemoni incontrastati, l’alternativa al caos è un ordine di equilibri.
Osservando le opinioni che i principali politologi statunitensi esprimevano alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, Valerie Morkeviĉius notò un interessante paradosso. Quanti afferivano alla scuola del realismo politico erano, nella gran parte dei casi, contrari, poiché sottolineavano l’assenza di un reale interesse americano nel condurre quella guerra.
Dall’altro lato, coloro che erano più vicini al filone dell’internazionalismo liberale erano spesso più favorevoli alla guerra. La studiosa concludeva affermando che «la teoria della guerra giusta produce un orientamento più bellicoso del realismo», ma nonostante questo l’opinione comune riconosce nel secondo approccio una visione insitamente negativa, guerrafondaia.
Un ventennio dopo sarebbe il caso di accorgersi che di guerre giuste in senso assoluto non ne esistono. Esistono le guerre necessarie, e sono molte meno di quelle giuste.
di Francesco Dalmazio Casini
Cosa c’è ne Il ritorno delle guerre
14 analisi per raccontare perché i conflitti sono tornati per restare:
A un battito dal cuore
Droni, trincee, artiglieria: la lezione della guerra in Ucraina
Come Africa insegna: le crisi militari a sud dell’equatore
Battaglia per Taiwan: immaginare l’invasione dell’Isola ribelle
Il futuro dei conflitti è per le vie delle città
Un mondo più pacifico? La persistenza della guerra nelle relazioni internazionali
L’intelligenza artificiale va alla guerra
La guerriglia che sarà, intervista a Gastone Breccia
L’evoluzione dei conflitti in un sistema frammentato
La globalizzazione non passa la prova delle armi
Le sanzioni non valgono una guerra
L’Occidente non è pronto per le guerre che lo aspettano
“L’Ucraina ci ha svegliato”, intervista al Generale Maurizio Iacono
Le guerre d’Italia ieri, oggi e domani
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