S.3 ep.7: Perchè gli USA temono il Messico
Immigrazione, commercio e (soprattutto) cartelli della droga; come leggere le frizioni tra Washington e il suol vicino meridionale
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Una “herida abierta”
Come leggere la crisi migratoria
I rapporti economici tra USA e Messico
I cartelli della droga: un problema “cinese”?
Per una parte consistente dell’elettorato statunitense, la costruzione di un muro al confine meridionale con il Messico potrebbe rappresentare una soluzione per quello che viene percepito come un problema scottante. Al tempo stesso, una misura di questo tipo lascerebbe completamente intatto il problema costituito dalla questione identitaria.
Oggi il Messico non si trova più di fianco agli Stati Uniti, ma dentro. È per questo che gli analisti geopolitici sono soliti parlare della questione messicana per Washington come di una herida abierta (trad: ferita aperta), che sanguina da tempo senza dare segnali di volersi rimarginare in tempi brevi.
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Il problema è di natura eterogenea: spazia dall’economia alla sicurezza, dalla demografia alla cultura. Il Messico non è solamente il primo partner commerciale degli Usa, ma anche la principale meta turistica di molti cittadini statunitensi e il Paese con la maggiore comunità di espatriati sul suolo americano.
Viene naturale chiedersi a questo punto se la spina nel fianco del gigante nordamericano faccia così paura da spingere quest’ultimo ad azioni drastiche, come la più volte paventata possibilità di un intervento militare, per annientare il potere dei narcos.
La domanda che sorge spontanea è: si tratta di uno scenario veramente plausibile? Probabilmente no, ma per capirlo occorre cercare di sciogliere l’intricato nodo delle relazioni tra i due Paesi.
La “herida abierta”
Uno dei dossier principali nei rapporti tra i due Paesi è sicuramente quello migratorio. Come scrive The Economist «il confine tra Stati Uniti e Messico è sempre stato abbastanza poroso». La storia della migrazione di massa dal Messico comincia nel lontano 1964, quando la chiusura del programma di lavoro stagionale bracero negli Stati Uniti spinse molti lavoratori a trasferirsi dall’altra parte del confine, e proseguì con fasi alterne fino ai primi anni Duemila. Il risultato è che oggi negli Usa abitano oltre 30 milioni di messicano-statunitensi, pari a circa il 10% della popolazione totale.
Nello stesso articolo si riporta la storia di un immigrato messicano che guadagna più negli States come operaio edile di quanto avrebbe potuto mai aspirare nel Paese natale come medico. I benefici, tra l’altro, non sembrano limitati solo a quanti decidono di partire: le rimesse inviate dagli emigrati alle famiglie rimaste in patria hanno giovato notevolmente all’economia messicana, raggiungendo tra il 2020 e il 2021 la cifra record di 52 miliardi di dollari, pari al 4% del Pil.
L’esodo dei messicani verso gli Usa si è sviluppato seguendo il corso storico di cui sopra, e oggi, anche alla luce di una ritrovata dinamicità dell’economia messicana, sembra essersi pressoché esaurito, o comunque si presenta assai più debole che in passato. Per quanto riguarda i messicani, la minaccia demografica che impedisce agli americani Wasp di dormire sonni tranquilli proviene piuttosto dall’interno. Le famiglie di origine messicana tendono a fare molti più figli degli statunitensi di ascendenza anglosassone e probabilmente raggiungeranno questi ultimi nel giro di un paio di generazioni.
Dall’altra, abbiamo un secondo esodo più recente e più esplosivo, che riguarda i migranti centro e sudamericani provenienti in particolar modo da El Salvador, Guatemala e Honduras, cioè i Paesi del cosiddetto Triángulo Norte, l’area più povera dell’emisfero occidentale, ai piedi del Messico, devastata da violenza a corruzione.
Questi entrano in Messico da sud e lo attraversano con la mente rivolta al proverbiale American Dream al di là del suo confine settentrionale. Sono loro quindi, e non tanto i messicani in sé, i migranti al centro dell’attuale scontro politico negli Usa che vede contrapposti democratici e repubblicani, nonché del braccio di ferro sulle politiche migratorie tra Washington e Città del Messico.
Quando nel 2018 entrò in carica l’attuale presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, conosciuto anche con l’acronimo di AMLO e leader del partito di sinistra Morena, questo adottò in un primo tempo politiche estremamente progressiste nell’ambito del rispetto dei diritti umani, accogliendo e cercando di integrare i migranti economici provenienti dagli Stati meridionali, concedendo loro una pressoché totale libertà di movimento per il territorio nazionale.
Tuttavia, questa politica ebbe il risultato di incentivare ulteriormente i flussi migratori, perché molti pensarono di sfruttare la situazione particolarmente permissiva per attraversare agevolmente il Messico alla volta degli Usa.
La reazione dell’amministrazione Trump non si era fatta aspettare: quest’ultimo ha subito minacciato di alzare dazi sull’import dal Messico, nonché di chiudere completamente la frontiera meridionale. A quel punto, AMLO si è visto costretto ad assecondare Washington e partecipare all’operazione di deportazione e rimpatrio dei numerosi migranti sudamericani ammassati alla frontiera, ma anche ad applicare una stretta militare al confine meridionale con gli altri Paesi dell’America Latina.
Come leggere la crisi migratoria
Da marzo 2020, inoltre, per tamponare il problema dell’immigrazione clandestina Trump si è avvalso del famigerato Titolo 42, uno strumento legislativo che gli ha permesso di espellere oltre 2,8 milioni di persone verso le città messicane collocate a ridosso del limes tra i due Paesi.
Questa misura era stata approvata per la prima volta nel 1944 con il fine di proibire l’ingresso di persone o prodotti in territorio statunitense qualora, secondo le autorità competenti in materia di salute pubblica, quello avesse rappresentato un pericolo di diffusione di malattie trasmissibili. Il ricorso Titolo 42 è stato per Trump una manna dal cielo, che gli ha consentito sfruttare la crisi pandemica per porre una toppa (almeno in termini narrativi) alla tragica situazione migratoria sul confine meridionale.
Eppure, nonostante la rigidità delle misure adottate, i dati hanno messo in luce come il numero dei migranti che oltrepassano illegalmente il confine non sia mai diminuito in modo considerevole, mentre anzi continua ad aumentare: nel solo 2021, i migranti arrestati negli Usa per aver attraversato il confine illegalmente hanno raggiunto la cifra record di due milioni.
Questo accade essenzialmente a causa della tragica condizione in cui versano le popolazioni che abitano nel Triángulo Norte, vessate da povertà, criminalità e disastri climatici: si tratta di un problema strutturale che necessita quindi un approccio sistemico.
C’è di più. Alla mezzanotte dell’11 maggio 2023 (7 del mattino del 12 maggio in Italia), il Titolo 42 è ufficialmente decaduto. La sua esistenza aveva procurato un pesante imbarazzo all’amministrazione Biden, che non poteva sbarazzarsene a meno di pagare costi politici altissimi, ma neanche mantenerlo perché in totale contraddizione con la sua linea politica progressista.
Quindi, dopo un periodo di proroga, si è scelto di non rinnovarlo: è questo il motivo per cui, precisamente in queste ore, svariate decine di migliaia di migranti si stanno ammassando sul confine, pronti per attraversarlo illegalmente, in quella che è a tutti gli effetti una crisi umanitaria dalle dimensioni incalcolabili.
Nel frattempo, in Florida (dove più del 25% della popolazione è composta da immigrati) è stata approvata una durissima misura anti-immigrazione, fortemente voluta dal governatore Ron DeSantis per combattere quella che in ambito repubblicano viene ormai definita la “Biden’s Border Crisis”.
La legge mette a disposizione 12 milioni di dollari per trasferire i migranti dalla Florida ad un altro stato, ma punirà anche coloro che aiutano i migranti senza documenti e chiederà alle aziende con più di 25 dipendenti di utilizzare E-Verify, un sistema federale per controllare lo stato di immigrazione delle persone che vogliono assumere.
Il Presidente messicano Obrador ha criticato severamente il provvedimento definendolo «immorale», specialmente per uno Stato come la Florida dove la percentuale di popolazione immigrata è così alta.
DeSantis ha reagito rispondendo al presidente in prima persona: «mi sembra che abbia un disastro tra le mani. Ha i cartelli totalmente fuori controllo, che gestiscono il suo Paese e tutti i milioni di persone che stanno arrivando qui stanno passando per il Messico. Che tipo di Paese permette a milioni di persone di vivere in questo modo?». Nel frattempo, su TikTok circolano video che mostrano cantieri edili o coltivazioni senza lavoratori a causa della nuova legge.
I rapporti economici tra Messico e Stati Uniti
Dal punto di vista economico, il Messico è senza dubbio legato a doppio filo con l’ingombrante vicino nordamericano: i dati della Asociación Nacional de Importadores y Exportadores de la República Mexicana (ANIERM) dimostrano che il Paese a stelle e strisce è di gran lunga il suo primo partner commerciale, responsabile di poco meno della metà delle importazioni annuali messicane e destinatario addirittura dell’80% delle esportazioni totali.
Non è solo una questione di scambi commerciali, dal momento che l’economia messicana è totalmente dipendente dagli Usa, a partire dai nuovi progetti promossi dal governo di Obrador. Un esempio concreto è quello del grandioso progetto turistico nel Messico meridionale soprannominato “il treno maya”. Come scrive El Economista, quest’ultimo vedrà la luce se e solo se le imprese statunitensi che muovono il turismo nella regione (catene di hotel, linee aeree, agenzie di viaggio, etc. etc.) parteciperanno attivamente.
Non si tratta di una dipendenza unidirezionale: secondo la U.S. Census (un’agenzia del Dipartimento del commercio che si propone di raccogliere statistiche riguardo al Paese, ai suoi abitanti e all'economia) il 2023 è iniziato con il Messico come primo partner commerciale degli Stati Uniti, dopo lo straordinario sorpasso nei confronti di Canada e Cina avvenuto sul finire del 2022, che infatti si è chiuso con i due Paesi rispettivamente al secondo e al terzo posto.
Per la verità, è da lungo tempo che il Paese latino-americano resta nella top 3 dei partner commerciali statunitensi, assecondando una tendenza originata nel 2019, con l’inizio della guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti. Il “Presidente del muro”, Donald Trump, resta, paradossalmente, anche l’autore di un legame ancora più viscerale tra i due Paesi, naturalmente con il netto prevalere di una parte sull’altra. Infatti, si tratta di un’interdipendenza in cui il coltello dalla parte del manico è tenuto da Washington.
Attualmente Messico, Stati Uniti e Canada sono impegnati in un accordo di libero scambio che abbatte le tariffe doganali tra i tre Paesi e prende il nome di Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (Usmca). Questo fu introdotto nel 2018 su iniziativa dell’allora presidente Trump, che ci teneva a riformulare a tutti i costi il precedente Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), in vigore dal 1994. Secondo Trump, il Nafta era responsabile della perdita di migliaia di posti di lavoro a causa della delocalizzazione in Messico, dove il costo della manodopera era notevolmente inferiore.
Rispetto al Nafta, l'Usmca aumenta le normative ambientali e di lavoro e incentiva una maggiore produzione interna di auto e camion, ma soprattutto impone al Messico un requisito salariale minimo nell'industria automobilistica, in modo da disincentivare la corsa alla delocalizzazione delle aziende americane verso il Messico, dove il costo della mano d’opera era sensibilmente più basso. Numerosi sono gli altri punti del patto, ma il più interessante è quello che prevede lo spuntare di una clausola “cinese”, volta a scoraggiare eventuali negoziati commerciali tra Città del Messico, Ottawa e Pechino.
In base a quest’ultima, uno Stato dell’Uscma che intenda stringere un accordo commerciale con la Cina (e non è un caso che insieme figurino anche la Corea del Nord e Cuba) ha l’obbligo di avvisare preventivamente gli altri due partner, nonché, prima di firmare l’accordo, permettere a questi di visionare il testo finale. Poi, se l’accordo viene effettivamente firmato, gli altri due membri dell’Uscma hanno la facoltà di decidere se uscire dall’Uscma, provocandone di fatto lo scioglimento.
I cartelli della droga: un problema “cinese”
Per quanto riguarda il tema della lotta al narcotraffico, Washington lamenta una mancanza di cooperazione; dall’altra parte, così come per l’immigrazione, Città del Messico si lamenta di non vedere riconosciuti gli sforzi compiuti nella guerra contro i cartelli. Resta il fatto che molte organizzazioni criminali messicane oggi non sono più semplici gang, ma vere e proprie mafie, con una forte capacità di infiltrazione nel tessuto economico e sociale statunitense.
È questo il caso del cartello di Sinaloa, al cui vertice si colloca il boss Ismael "El Mayo" Zambada. Tuttavia, Sinaloa è accompagnato da altri gruppi, alcuni dei quali emergenti, altri vecchi rivali, altri ancora ormai in declino. Ad oggi la Dea riconosce otto grandi cartelli messicani: Sinaloa, Cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG), Beltrán-Leyva Organization (BLO), Los Zetas, Cartello del Golfo (CDG), Cartello di Juárez/La Línea (CDJ), La Familia Michoacana (LFM) e Los Caballeros Templarios (LCT).
Gli ultimi due stanno attraversando una fase di serio declino, mentre il CJNG, nato solo nel 2010 in seguito a una scissione del cartello di Sinaloa, è il gruppo che attualmente si presenta in maggior crescita, al punto da essere percepito da molti come il prossimo nemico numero uno della Dea.
La minaccia più grave per la società statunitense è costituita dal Fentanyl, una temibile droga sintetica. Scrive AGI che nel 2022 la Dea ha «sequestrato quasi 379 milioni di dosi di Fentanyl, il massimo storico in un’operazione complessiva di polizia».
Negli Stati Uniti gli oppioidi sono responsabili di una vera e propria epidemia di morti per overdose. Il solo fentanyl sarebbe responsabile di ben 67mila vittime nel 2021, a fronte di quasi 100mila morti ascrivibili all’abuso di droghe. La facilità di produzione e la redditività del business hanno determinato un “sorpasso” da parte di questa metanfetamina ai danni delle droghe “tradizionali” come eroina e cocaina.
Ancora, la Dea ha riferito il 5 maggio di aver arrestato 3.337 persone legate al cartello di Sinaloa e quello di Jalisco Nueva Generación (CJNG) perché coinvolte nel traffico di fentanyl. Tali arresti sono avvenuti nel contesto di un’operazione durata dal 1 maggio 2022 al 1 maggio 2023 e soprannominata Last Mile, conclusasi con il sequestro di quasi 44 milioni di pillole di fentanyl e 6.500 libbre (circa 3.000 chili) di polvere – dosi sufficienti ad uccidere circa 193 milioni di persone (fonte: ADUC).
Ma questa droga non ha solo mietuto decine di migliaia di vittime nel corso degli ultimi anni. Ciò che c’è di nuovo a proposito del dibattito sul Fentanyl, è che, stando a quanto rileva il giornalista messicano Armando Guzmán, incaricato per anni da TV Azteca di occuparsi delle questioni politiche di Washington, per la prima volta negli States si sta parlando di come l’enorme traffico di armi e droghe sia riuscito nel corrompere alcuni funzionari statunitensi, esponendo le falle nell’apparato federale americano.
La tensione sulla politica antidroga è aumentata tra Stati Uniti e Messico da quando quattro americani sono stati rapiti a Matamoros nel mese di marzo e due sono rimasti uccisi, nello Stato messicano di Tamaulipas, collocato proprio sul confine. Washington ha severamente rimproverato il Messico dichiarando che dovrebbe fare di più per contrastare il traffico di fentanyl.
AMLO ha reagito condannando le «rudi minacce» dei legislatori statunitensi sul traffico di droga e negando che il fentanyl sia prodotto nel suo Paese, ma al tempo stesso sbrigandosi ad inviare, il 4 aprile, una lettera al suo omologo cinese Xi Jinping.
In questa chiede al presidente cinese di aiutare il Messico a controllare le spedizioni di fentanyl che partono dalla Cina, ma accusa anche la corruzione “morale” che caratterizzerebbe la società statunitense: «ingiustamente, ci stanno incolpando di problemi che in larga misura hanno a che fare con la loro perdita di valori, la loro crisi del benessere».
Secondo diverse fonti, circa il 70% del fentanyl che viene smerciato negli Stati Uniti è prodotto nella Repubblica Popolare Cinese. La merce – finita o sottoforma di precursori chimici – arriva in Messico grazie alla mediazione tra cartelli della droga e organizzazioni criminali cinesi. Uno degli snodi più importanti risulta essere il porto di Làzaro Càrdenas, dove è particolarmente attivo il cartello dei Caballeros Templarios.
Pechino, dopo un’iniziale fase di collaborazione con le autorità statunitensi, oggi nega ogni responsabilità. Rispondendo al presidente messicano, il Ministero degli Esteri cinese ha affermato che non esiste un traffico illegale di fentanyl tra la Cina e il Messico, ribadendo che ufficialmente Pechino non è mai stata informata di alcun sequestro di fentanyl proveniente dalla Cina avvenuto in territorio messicano.
Al tempo stesso, la portavoce del ministero Mao Ning ha dichiarato che: «Gli Stati Uniti devono affrontare i propri problemi e adottare misure più sostanziali per rafforzare la regolamentazione all'interno dei propri confini e ridurre la domanda», relegando quindi la questione a un problema "made in USA".
In questo ribalzo di responsabilità, il direttore dell’ufficio della Casa Bianca per le politiche sul controllo della droga, Rahul Gupta, ha ribadito: «Sappiamo che i precursori chimici arrivano dalla Cina in Messico. Sappiamo che in Messico si produce fentanyl».
La situazione ha portato diversi esponenti politici americani, tutti repubblicani, ad aleggiare l’ipotesi di un intervento militare statunitense in Messico per disarticolare i cartelli della droga. Lo stesso Donald Trump ad aprile del 2023 aveva nominato esplicitamente la possibilità di inviare nel Paese unità delle forze speciali, qualora fosse stato rieletto. I deputati Mike Waltz e Dan Crenshaw hanno invece introdotto alla Camera una mozione per autorizzare l’uso della forza contro le organizzazioni criminali, anche sul suolo messicano.
Buona parte di queste dichiarazioni rientra nel novero della boutade pre-elettorali in vista delle presidenziali del 2024. Tuttavia, come ha raccontato Mark Esper, all’epoca segretario per la Difesa, Trump avrebbe realmente considerato di effettuare attacchi missilistici contro i cartelli della droga – salvo poi venire dissuaso dalle implicazioni umanitarie (e legali) del caso.
Per quanto non sia espressione diretta dell’attuale direttrice geopolitica statunitense, l’attivismo dei repubblicani ha ingenerato risposte molto dure da parte della leadership messicana, favorendo un clima di progressiva sfiducia. Proprio questo genere di tensioni, lungi dal poter determinare un intervento militare, può tuttavia colpire la cooperazione tra gli apparati americani e messicani che si occupano di contrastare il fenomeno.
La questione messicana riaccende infine nella superpotenza americane paure sopite da secoli. Il Messico è infatti unico attore, insieme al Canada, a poter porre un problema territoriale agli Stati Uniti. L’esistenza stessa di un “problema messicano” - ancor di più uno che chiama in causa il rivale cinese, anche se alla lontana - costringe Washington a preoccuparsi della frontiera. La stessa che, data per sicura fin dal primo ‘900, ha permesso agli Usa di dedicarsi completamente al perseguimento dell’egemonia globale.
Stefano dal Canto
Questa è la settima uscita della terza stagione di Lumina, la newsletter di geopolitica ed esteri di Aliseo, curata da Francesco Dalmazio Casini e realizzata da Stefano dal Canto.
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