S.3 ep.2: Iran vs Israele: sarà guerra in Medio Oriente?
Teheran e Tel Aviv si scrutano e si stuzzicano. Sullo sfondo le rispettive crisi interne e l'incipiente atomica iraniana. Un conflitto possibile ma improbabile e i suoi preparativi
Il ciclo di fuoco che ha incendiato il Medio Oriente comincia nel campo profughi di Jenin il 26 gennaio. Le truppe israeliane entrano in forze in Cisgiordania nel corso di un’operazione antiterrorismo per sgominare una cellula della Jihad islamica palestinese in procinto di condurre “multipli attacchi” in Israele. Nel corso del raid muoiono nove palestinesi e almeno 20 restano feriti. Il giorno seguente a Gerusalemme un uomo spara contro un gruppo di israeliani presso una sinagoga nel quartiere di Neve Yaakov, uccidendo sette persone.
Nella Striscia e in Cisgiordania i gruppi armati scendono in piazza per festeggiare insieme alla popolazione palestinese. La tensione continua a montare sabato, quando un tredicenne palestinese apre il fuoco nella Città Vecchia, ferendo gravemente tre persone. Nelle stesse ore si registrano alcuni atti di violenza tra coloni israeliani e popolazione palestinese.
È la prima crisi dall’avvento del sesto governo di Bibi Netanyahu. Una sfida a cui l’esecutivo più a destra della storia israeliana deve rispondere col massimo della durezza se intende salvare la faccia. Il ministro della Difesa, come quello della Sicurezza Ben Gvir, promettono una stretta in senso securitario: da giorni si susseguono operazioni di polizia e demolizioni di case di persone legate, secondo gli israeliani, agli attentatori.
Per le successive tre settimane l’escalation si diffonde a macchia d’olio in Terra Santa. Il 6 febbraio nei pressi di Gerico le forze di sicurezza israeliane uccidono cinque uomini coinvolti in un attentato (fallito) che il 28 gennaio avrebbe voluto colpire un ristorante israeliano nella stessa città. Una settimana dopo i jet di Israele colpiscono, a Gaza, quella che viene individuata come una fabbrica sotterranea di armi operata dai militanti di Hamas. Ricomincia, nei cieli, l’ormai celebre scontro tra razzi lanciati dalla Striscia e gli intercettori del sistema Iron Dome, mentre al confine i carri armati israeliani sono coinvolti in schermaglie contro alcuni posti di osservazione dei militanti palestinesi.
Il 22 febbraio si consuma l’incidente più grave dall’inizio della crisi. L’esercito israeliano entra a Nablus, in Cisgiordania, per colpire una cellula in procinto di “realizzare attacchi nell’immediato futuro”. Muoiono 11 palestinesi e 102 (secondo le autorità di Ramallah) rimangono feriti, molti sono colpiti da armi da fuoco. A peggiorare la situazione il fatto che il raid è avvenuto in pieno giorno, poco dopo le 10 del mattino, quando il mercato e i vicoli della città vecchia erano gremiti di persone.
Ma la tempesta in Terra Santa, secondo una schema consolidato, difficilmente resta all’interno dei confini palestinesi. Soprattutto, interseca da sempre la traiettoria dell’Iran. Nella notte del 29 gennaio una fabbrica, forse di sistemi d’arma, nella città di Isfahan viene attaccata con alcuni droni. Fonti di Teheran riferiscono che l’attacco si è risolto in un fallimento e che il sistema di difesa aereo del complesso ha intercettato la minaccia in arrivo. A peggiorare la situazione un terremoto che negli stessi momenti interessa l’area nordoccidentale del paese, colpendo i centri di Khoy, Azarshahr e Karaj.
Sia il Wall Street Journal che il New York Times, citando fonti di intelligence, attribuiscono allo stato ebraico la paternità dell’attacco. Sempre nella giornata di domenica un convoglio, che probabilmente trasportava armi per un gruppo legato a Teheran, viene colpito da aerei non identificati in Siria, causando almeno 7 vittime – un copione molto simile a quanto accaduto a novembre, quando un raid simile, sempre in Siria, viene rivendicato dagli israeliani.
Le notizie diffuse dai giornali americani, dietro imbeccate dell’intelligence, insieme alla visita del segretario di Stato americano Antony Blinken in Israele, segnalano che l’attacco israeliano è stato condotto in accordo con Washington. Al netto dei danni contenuti, è un campanello d’allarme importante per Teheran.
Le autorità iraniane affermano che l’attacco è stato condotto con droni di piccole dimensioni, dunque probabilmente attivati da una “cellula” che opera dentro i confini persiani. Un problema con cui l’Iran è alle prese da tempo, esemplificato nell’omicidio del generale Mohsen Fakhrizadeh Mahabadi, referente del programma nucleare, nel novembre del 2020.
A gettare nuova benzina sul fuoco sarà un nuovo raid israeliano che il 19 febbraio colpisce, a Damasco, una struttura nel distretto di Kafr Sousa. Per Tel Aviv l’obiettivo è un’installazione iraniana, anche se Teheran nega e afferma che nessun cittadino è stato coinvolto nell’attacco. Secondo fonti siriane l’attacco causa almeno 15 morti, di cui la maggior part civili – in parte da attribuirsi anche ai proiettili della contraerea che ha tentato di intercettare i missili. È la seconda volta nel 2023 che Tel Aviv colpisce la capitale siriana, dopo che il 2 gennaio alcuni missili avevano ucciso alcuni soldati siriani nel sud della città.
L’attacco contro il sito di Isfahan – lo stesso vale per Damasco – è un avvertimento diretto alla Repubblica islamica. Un invito a non approfittare della situazione delicata in Israele, che ricorda a Teheran le sue debolezze interne. Il segnale arriva in un momento non casuale. Il dossier delle proteste contro la polizia religiosa è tutt’altro che archiviato, ma l’Iran procede verso l’attivazione del programma nucleare e sembra che abbia raggiunto, secondo la Iaea (Agenzia internazionale dell’energia atomica), un grado di arricchimento dell’uranio dell’84% – a un passo dalla soglia del 90% indicata per la realizzazione delle armi atomiche. Teheran dal canto suo nega e parla di una “cospirazione” contro di lei.
A preoccupare Tel Aviv c’è anche la possibilità che la Repubblica Islamica riesca a trovare una quadra con i competitor regionali per ritagliarsi uno spazio “legittimo” nella regione mediorientale. Evenienza che potrebbe essere favorita dalla momentanea debolezza della Turchia, alle prese con gli strascichi del sisma. Teheran – come affermato a inizio mese da Erdogan e come ribadito da Sergej Lavrov pochi giorni fa – potrebbe infatti ai colloqui di alto livello con Russia, Siria e Turchia che mirano a un riassetto generale della regione devastata dalla guerra civile.
La partecipazione della Repubblica islamica, uno degli attori coinvolti boots on the ground nel conflitto siriano, lascia intendere che esistono delle vie da battere perché la Repubblica islamica forzi l’isolamento internazionale in cui è costretta. Uno sviluppo che non può che preoccupare il governo israeliano, fautore della linea più dura possibile contro gli Ayatollah.
La crisi interna spinge l'Iran verso la guerra
In un clima interno fortemente instabile a causa delle violente proteste degli ultimi mesi e di alcune voci di dissenso che cominciano a levarsi all'interno del clero sciita, l'Iran cerca uno sfogo esterno, un nemico, che sia in grado di compattare il fronte nazionale e spingerlo verso una causa comune. Israele e l'Iran sono sempre stati sul piede di guerra, ma gli sviluppi politici degli ultimi mesi rischiano di portare ad un escalation incontrollabile, specialmente qualora il governo di Teheran dovesse ritenere possibile impiegare i suoi alleati regionali per far sì che il grosso delle forze israeliane resti lontano dai veri centri del potere iraniano.
In caso di guerra aperta, infatti, l'Iran potrebbe impiegare il suo maggior alleato regionale, il Partito libanese Hezbollah, per costringere Israele a dividere il peso della sua potente aviazione su due fronti. Hezbollah negli ultimi anni ha visto una crescita notevole sia per quanto riguarda la qualità che per la quantità dei propri strumenti bellici, a cominciare dal comparto missilistico e da quello delle loitering munitions (droni suicidi).
A seguito dell’intervento nel conflitto siriano, il Partito di Dio ha poi costruito una fitta rete di alleanze con varie milizie attive in Siria, comunemente note come Syrian Hezbollah, che unite alle forze delle milizie irachene alleate permetterebbero di schierare un notevole nucleo di soldati direttamente al confine israeliano.
La creazione di un buon numero di basi nei pressi di Quneitra, nella parte del Golan sotto controllo siriano, e sui monti dell'Antilibano che dividono Libano e Siria permette poi al partito di dividere l'area di operazioni da cui ingaggiare Israele. Durante la guerra del 2006, infatti, Hezbollah poté colpire Israele solo dalle proprie postazioni nel sud del Libano, ormai ben note ai servizi informativi israeliani, ma, con la creazione e la proliferazione di nuove basi in territori diversi da quello libanese, la capacità offensiva del Partito è notevolmente aumentata, così come la possibilità di colpire da postazioni non segnalate all'intelligence di Tel Aviv. Ciò rende l'impiego massiccio dell'aviazione più complesso da parte di Israele, specialmente visto il tipo di terreno montagnoso e impervio in cui queste basi si trovano.
Tramite Hezbollah, l'Iran ha la capacità di colpire direttamente il territorio israeliano, salvaguardando nel frattempo le proprie infrastrutture, molto lontane dall'area delle operazioni. Tramite il corridoio iracheno-siriano, i Pasdaran potrebbero sostenere un imponente sforzo logistico atto a rinforzare e rifornire i combattenti di Hezbollah al fronte, anche grazie alla base aerea di Dabaa, nella città siriana di Qusayr, distante pochi chilometri dalla valle della Bekaa in Libano. Tuttavia, il governo iraniano sembra intenzionato a prendere provvedimenti anche in vista di un possibile scontro aereo nei cieli dell’Iran.
Come Teheran si prepara a combattere
Visto l'attuale clima geopolitico dell'area e la possibilità di un escalation militare, l'Iran sta lentamente cercando di migliorare il proprio comparto bellico, adeguandolo alle sfide che potrebbe dover sostenere nel breve periodo. Di tutte le componenti delle forze armate iraniane, l’aereonautica è quella più in difficoltà, vista l’obsolescenza di gran parte della flotta aerea iraniana, in gran parte composta da vecchi modelli americani quali gli F-4, gli F-5 e gli F-14, tutti appartenenti alla vecchia aviazione imperiale dei Pahlavi.
Per questa ragione, secondo quanto dichiarato da Shahriar Heidari, membro della commissione per la sicurezza del parlamento iraniano, Teheran si starebbe orientando verso l’acquisto di 24 nuovi Sukhoi Su-35 dalla Russia. Questi velivoli, notevolmente più avanzati di quelli in dotazione all’aereonautica, permetterebbero alla Repubblica di dotarsi di un piccolo ma efficace nucleo di aerei di nuova generazione, almeno sulla carta in grado di confrontarsi con i mezzi in dotazione ad Israele.
Tuttavia, non c’è la certezza che gli iraniani siano in grado di utilizzare e, soprattutto, manutenere questa tipologia di mezzi con un certo grado di efficacia, viste le pessime prove date dall’arma azzurra iraniana nel recente passato.
L’ammodernamento della flotta aerea della Repubblica resta comunque una priorità, visto il nemico che probabilmente si troverà ad affrontare nel prossimo futuro, ovvero lo Stato d’Israele. Tel Aviv ha infatti dalla sua una notevole esperienza in campo aereonautico e le sue forze aeree hanno dimostrato spesso di essere molto competenti e ben comandate, oltre ad avere in dotazione mezzi decisamente efficienti come gli F-35 “Adir”.
Lo scontro tra le due nazioni avverrebbe poi, per questioni meramente geografiche, prettamente nei cieli, tramite l’impiego massiccio da ambo le parti di missili ed aerei. Ciò rende piuttosto chiaramente quanto sia fondamentale per l’Iran dotarsi di mezzi efficaci e di infrastrutture in grado di contrastare la supremazia aerea israeliana.
Le innovazioni per quanto riguarda l’aviazione non si fermano infatti ad un mero acquisto di nuovi mezzi, ma prevedono anche la creazione di alcune basi segrete scavate all’interno di montagne così da rimanere protette da eventuali attacchi a sorpresa dell’aviazione israeliana. Queste basi, la prima delle quali è stata denominata “Oqab 44”, sarebbero in grado di ospitare sia i nuovi velivoli in arrivo dalla Russia, sia gran parte della flotta di droni della Repubblica e permetterebbero all’aviazione di contrattaccare efficacemente qualora il paese venisse attaccato.
Il numero totale di queste basi non è noto e le informazioni divulgate a febbraio dall’aviazione iraniana erano limitate alla base “Oqab 44”, di cui sono state mostrate alcune gallerie ed alcuni dei mezzi in deposito. È possibile ipotizzare che tale sistema di gallerie e basi sia esteso su buona parte del paese, vista l’abbondanza di rilievi montagnosi di cui dispone l’Iran e la necessità di garantire una risposta efficace in tempi brevi in caso di attacco. Tuttavia, è probabile che sui monti Zagros, che tagliano il paese in direzione Ovest-Sud, si trovi il maggior numero di basi, vista la vicinanza di questi rilievi ad importanti centri come Isfahan e Teheran e la prossimità al confine con l’Iraq.
Negli ultimi anni Teheran ha inoltre sviluppato un comparto missilistico e di velivoli autonomi senza pilota di tutto rispetto. Capacità ottenute nonostante le sanzioni, a partire da casi di manuale di reverse engineering – come quello, appurato, nei confronti di un drone americano Global Hawk abbattuto nel 2019. Stando a quanto dichiarato dalle forze aerospaziali delle Guardie della Rivoluzione il 25 febbraio, l’Iran avrebbe completato lo sviluppo di un missile da crociera a lungo raggio, in grado di colpire fino a 1650km di distanza. Si aggiunge a una vasta gamma di vettori missilistici prodotti nel paese, tra cui alcuni a propellente solido – nonostante i missili iraniani siano sempre stati contraddistinti da un’elevata imprecisione.
Breve menzione meritano i temibili droni Shahed che le forze russe stanno utilizzando, sembra con discreto successo, durante il conflitto russo-ucraino. Nonostante una carica esplosiva ridotta, una gittata elevata (2500km quella dichiarata) e un costo molto contenuto (si parla di 20mila dollari per unità) hanno spinto Mosca a richiederne a migliaia. Si tratta, al momento, di uno dei pochi assetti iraniani che si è dimostrato efficace in un conflitto convenzionale (in cui si è dovuto misurare con capacità antimissile di tutto rispetto). Non a caso almeno 20 paesi sarebbero interessate all’acquisto.
Il malessere israeliano
Variabile fondamentale del conflitto sotterraneo tra Teheran e Tel Aviv saranno i malesseri interni che attraversano i due contendenti. Negli ultimi quattro anni i cittadini israeliani sono stati chiamati al voto ben cinque volte, dopo che nell’aprile del 2019 nessuno dei due schieramenti politici principali fu in grado di formare un esecutivo. Una crisi istituzionale che vede nell’ultima tornata elettorale, che a novembre del 2022 ha consegnato le chiavi di Israele al governo più a destra della storia del paese, una nuova tappa piuttosto che un punto d’arrivo.
Il 4 gennaio del 2023 il nuovo governo israeliano, guidato per la sesta volta da Bibi Netanyahu, ha presentato una controversa riforma della giustizia, che punta a limitare i poteri della Corte Suprema e al contempo permettere al parlamento di nominarne i membri. In un paese senza costituzione, si tratterebbe di una subordinazione più o meno esplicita del potere giudiziario a quello esecutivo/legislativo.
Dal 7 gennaio Tel Aviv è sconvolta da partecipatissime manifestazioni di protesta, che in almeno due casi hanno superato i 100mila partecipanti – toccando quota 250mila, sembra, in occasione delle proteste del 19 febbraio.
Sono numeri impressionanti per uno Stato che è abitato da meno di 10 milioni di persone. Soprattutto è da segnalarsi come le manifestazioni non siano state interrotte dal clima di tensione ingenerato da raid e attentati che interessano il paese da fine gennaio. Sembra insomma che i tentativi del governo Netanyahu di compattare il fronte interno di fronte a una pressante minaccia esterna, in questo caso Hamas, non abbiano sortito i loro frutti. Campanello d’allarme impossibile da ignorare per un paese che esiste su una delle faglie geopolitiche più calde del pianeta.
L’esecutivo israeliano vive un momento complicato. Il mandato popolare che ha portato Likud e soci alla Knesset impone la linea dura sulla questione palestinese, ma a Tel Aviv sanno bene che la minaccia principale resta l’Iran, in particolar per via del suo tramite libanese Hezbollah. Impossibile gestire le due minacce allo stesso tempo, evitando che si fondano dando vita ad una ben più pericolosa crisi regionale.
Eppure, l’attentato ad opera di Hamas che è stamattina costato la vita a due cittadini israeliani ad Huwwara (vicino a Nablus) rischia di complicare la de-escalation con le autorità palestinesi. Con il Ramadan alle porte e la necessità da parte del governo di rispondere all’uccisione, difficile sperare che i colloqui tra Tel Aviv e Ramallah in corso ad Aqaba, in Giordania, possano portare a una rapida risoluzione del problema.
A pesare sulle scelte di Israele c’è tanto lo spettro del nucleare iraniano quanto una serie di criticità già evidenziate nel corso dell’ultima crisi realmente militare tra israeliani e palestinesi, quella del maggio del 2021. In quell’occasione l’aviazione israeliana diede una spaventosa prova di efficienza, colpendo più di 750 bersagli nella Striscia, mentre Iron Dome riuscì a intercettare buona parte dei razzi palestinesi.
Sul piano strategico, tuttavia, Tel Aviv poté festeggiare ben poco. I disordini innescati dai cittadini arabo-israeliani in alcune città come Lod e nel sobborgo di Jaffa rivelavano infatti come questa fetta di popolazione – il 20% degli abitanti di Israele – fosse molto meno integrata e soprattutto non aliena alla causa palestinese.
Soprattutto, il cessate il fuoco raggiunto con Hamas, nonostante le perdite assolutamente sproporzionate (decine contro migliaia), non portava con sé alcun obiettivo strategico (nemmeno tattico) raggiunto. In qualche modo, la crisi del 2021 – festeggiata dai miliziani palestinesi alla stregua di una vittoria – certificava l’impossibilità di costruire un futuro privo di minacce. Condizione ormai strutturale, indipendente dai successi operativi conseguiti dalle forze armate dello Stato ebraico.
Schizzo di una guerra (im)possibile
Ciò che complica l’equazione di un eventuale conflitto tra Israele e Iran è l’abbaglio percettivo in cui si potrebbe incappare imperniando l’analisi sul solo programma nucleare di Teheran. Se gli Ayatollah si dotassero di armi atomiche sarebbe un incubo per Tel Aviv, ma non è detto che le capacità convenzionali della Repubblica islamica non bastino, da sole, a mettere in crisi il sistema di sicurezza israeliano.
Per quanto Teheran abbia fatto grandi passi in avanti verso l’acquisizione della bomba nucleare, non sarebbe impossibile per Israele disarmare una minaccia tanto grande ma al contempo tanto ristretta. Raid aerei e sabotaggi potrebbero fermare gli iraniani a un passo dall’atomica se gli israeliani fossero in possesso delle informazioni necessarie – compito per cui l’intelligence di Tel Aviv si è sempre mostrata all’altezza, orchestrando attentati e attacchi dall’interno dei confini iraniani.
Se l’aviazione israeliana si muovesse per tempo, ondate su ondate di attacchi aerei condotti da F-35, F-16 e F-15 potrebbero – sfruttando magari lo spazio aereo saudita – colpire siti e installazioni del programma nucleare. Nonostante molti degli obiettivi siano costruiti sottoterra, è probabile che gli attacchi continuati tramite bombe ad alto potenziale (bunker buster) ne abbiano ragione, specie se si considera che gli attuali caccia di Teheran avrebbero (per il momento) poche possibilità contro i moderni velivoli israeliani.
Quella di un first strike in forze da parte dell’aviazione di Israele è un’eventualità che i funzionari dello Stato ebraico tendono a considerare sempre più probabile. Non solo i programmi di acquisizione per la Difesa da qualche anno a questa parte sono esplicitamente focalizzati sulle capacità necessarie per queste operazioni, ma gli stessi ufficiali iniziano a parlarne con disinvoltura. Tamir Hayman, ad esempio, veterano dell’Idf e direttore dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, in un’intervista di dicembre affermava che un primo attacco israeliano “è un’opzione militare davvero reale”.
Eppure, anche qualora il programma nucleare venisse rallentato o persino sgominato, all’aviazione di Tel Aviv mancherebbero le forze per condurre campagne di bombardamento strategico contro tutti i siti missilistici da cui arriverebbe la scontata rappresaglia iraniana. Secondo il Pentagono l’Iran dispone della prima forza missilistica del Medio Oriente e si stima che in ognuna delle sue provincia esista una delle famigerate “città-missile”: imponenti basi sotterranee che ospitano silos di lancio e depositi fortificati.
In caso di conflitto è possibile che centinaia di droni suicidi e missili vadano a saturare le difese multistrato che si sono rivelate tanto accurate contro i razzi palestinesi in questi anni. Sistemi come Iron Dome e Arrow, per quanto pensati per minacce numerose, hanno i loro limiti. Allo stesso modo, utilizzano munizioni costose e la cui produzione richiede tempi non indifferenti.
Tali attacchi potrebbero provenire da Siria, Libano e dalla stessa Repubblica Islamica. Data la distanza tra i due paesi, sarebbe difficile per Israele organizzare sortite su base giornaliera, ripetute per settimane o mesi, per colpire i siti di produzione e di stoccaggio dei missili (molto più numerosi rispetto a quelli del programma nucleare). Al contrario Teheran potrebbe continuare a far affluire i suoi vettori nelle mani degli alleati, che porterebbero il grosso degli attacchi. Sarebbe poi plausibile aspettarsi che in caso di conflitto le milizie palestinesi inizino a loro volta a lanciare razzi e missili contro le città israeliane, aggiungendo un carico notevole ai sistemi antimissile già sotto stress.
Difficile pensare che i moderni mezzi a disposizione delle forze di sicurezza di Israele, per semplici ragioni numeriche, possano bastare a mettere a tacere una serie di minacce simile. Escludendo categoricamente una guerra prolungata che possa minacciare la sopravvivenza dello Stato ebraico – evenienza che chiamerebbe in causa gli stessi Stati Uniti, facendo valutare un intervento in forze – la situazione costringerebbe tuttavia la totalità della popolazione israeliana ad una condizione di insicurezza permanente.
Tale condizione non solo colpirebbe duramente l’opinione pubblica ma potrebbe innescare la fuga dei capitali dal paese e, dopo poco, saturare le capacità di produrre i missili e le bombe necessari a colpire continuamente i proxies di Teheran dispersi tra Siria, Iraq e Libano.
Difficile pensare a un intervento diretto americano in Iran, che vada oltre il supporto di intelligence e occasionali attacchi aerei. Plausibile quello saudita, che tuttavia non disporrebbe di capacità di attacco necessarie a mettere a tacere un numero sufficiente di missili iraniani.
Tra la pace e la guerra ad alta intensità, esiste però un vasto spettro di possibilità. Le condizioni interne dei due paesi spingono a cercare rimedio nel conflitto, ma le stesse fragilità strutturali sconsigliano di abbracciare una guerra totale. In questo senso un’escalation controllata, seguita da un’altrettanto controllata de-escalation potrebbe servire gli interessi di entrambi gli attori.
Analisi realizzata Francesco Dalmazio Casini (Direttore Aliseo) e Leonardo Venanzoni (Coordinatore Medio Oriente Aliseo)
Questa è la seconda uscita della terza stagione di Lumina, la newsletter di geopolitica ed esteri di Aliseo, curata da Francesco Dalmazio Casini. Se ti è piaciuta consigliala ad un amico inviando questo link https://lumina.aliseoeditoriale.it/